Milano, città di bauscioni con le maniche rimboccate anche d’inverno. Milano che rimprovera alla Natura di non avergli regalato un lembo di mare. Milano che sembra vivere anche di notte, ma son tutte balle. Milano che domattina bisogna ricominciare alle sei, però se fossero le otto sarebbe meglio. Mi fermo qui, perché la Milano da bere non mi è mai piaciuta.
Sono un emigrato di lusso, perché, modestamente, noi torinesi, falsi e cortesi, mica ci facevamo intortare un tanto al chilo. Però mi fregava il dialetto, ma quando hai sette anni si fa presto a imparare anche le sfumature.
Milano e la “mia” periferia, che ondeggiava da piazzale Corvetto a Porta Romana, mi ha segnato per sempre. Con le sue cazzate arrotolate come cavatappi, ma anche con le macerie ancora visibili negli occhi di quelli più grandi di me.
Milano divenne anche per me un modo di essere, sbruffone e altero e mi ricordo la protervia: pensavo che essere di Milano equivalesse ad avere un passaporto internazionale, precisando, ovviamente, la partecipazione del campanile.
Milano dalle mille parlate è stata la mia città. Un lungo viale.
Adesso lo è di meno, non fosse per i ricordi in bianco e nero.